Il killer invisibile in fondo al mare è stato individuato nell’oceano Pacifico settentrionale, ma purtroppo la condizione globale non è delle più rosee. Le ultime scoperte, purtroppo, non rappresentano un caso isolato. I livelli di inquinamento stanno mettendo a rischio la flora e la fauna, marine e terrestri.
“Sono cinque giorni che navighi a 10 nodi, sei solo. Non vedi altre barche. E poi trovi spazzolini da denti e accendini che fluttuano intorno a te. È a dir poco surreale”, lo ha raccontato Laurent Lebreton, capo di una ricerca condotta da Ocean Cleanup, un’organizzazione no-profit olandese che si serve della tecnologia per recuperare la plastica in mare.
C’è un “killer invisibile” che minaccia il mare
In base ai campioni raccolti da Ocean Cleanup, i rifiuti sono attribuibili alle politiche industriali di Usa, Giappone, Corea del Sud, Cina e Taiwan. Il “killer invisibile” non è altro che attrezzatura abbandonata dai pescatori: reti, corde, lenze di plastica estremamente resistente.
La quantità di questi rifiuti non è facile da individuare, si stimano dai 500 mila al milione di tonnellate che abitano il mare. Il 2% degli attrezzi da pesca utilizzati a livello globale finisce nell’oceano. L’attrezzatura fantasma corrisponde a circa il 20% alla plastica marina, il resto proviene dalla terra ferma.
Sono stati calcolati circa 3mila kmq di reti da posta, 740mila km di palangari e 25 m di nasse e trappole. Secondo gli esperti, queste quantità basterebbero per ricoprire la superficie del pianeta in 65 anni.
I danni della plastica in mare: quali i rischi per l’ambiente
Si tratta di dati allarmanti, se si pensa ai pericoli che corre la fauna marina. Si tratta di vere e proprie trappole, di elementi non edibili che però non vengono riconosciuti come tali dai pesci (e, quindi, ingeriti accidentalmente).
Secondo il World Wide Fund for Nature, i rifiuti della pesca rappresentano la forma più mortale di plastica marina: colpiscono il 66% degli animali marini e il 50% degli uccelli marini.
Muoiono per soffocamento, annegamento e fame, oppure perché non riescono a riprodursi e a migrare correttamente. Il “killer invisibile” forma masse giganti di rifiuti che possono rappresentare un rischio notevole anche per barriere coralline, distese di alghe e imbarcazioni in navigazione. Ripulire i mari dall’incuria folle dell’uomo, inoltre, costa milioni di dollari.
Da dove provenga esattamente l’attrezzatura fantasma non è ancora chiaro. La Global Ghost Gear Initiative si pone l’obiettivo di colmare queste lacune nei prossimi 5/10 anni. Intanto si cercano alternative eco-friendly per la pesca: attrezzature biodegradabili e boe geolocalizzabili, per fare un esempio. A tal proposito, ecco perché buttare la bioplastica nell’organico potrebbe essere sbagliato.
Negli Stati Uniti, il Marine Debris Program della National Oceanic and Atmospheric Administration finanzia dozzine di progetti di prevenzione e recupero. Il Canada obbliga di segnalare la perdita della propria attrezzatura, che comunque va contrassegnata.
In questo modo si può risalire ai responsabili dell’inquinamento in mare. Intanto si aspetta che i Governi prendano seriamente in esame la situazione e stipulino dei trattati internazionali adeguati all’emergenza in corso.