Mentre l’Italia è barricata in casa per difendersi dalla pandemia da coronavirus, la medicina si sta adoperando per sviluppare due strategie difensive: l’immunità attiva (mediante il vaccino ancora oggetto di studio) e l’immunità passiva (attraverso l’impiego di anticorpi già “pronti” per l’uso).
L’ipotesi di utilizzare come difesa dalle infezioni il sangue di chi è guarito, in realtà, non è nuova; se ne parlava già alla fine del 1800, nel tentativo di sconfiggere altre malattie. Chi ha vinto contro il coronavirus ha nel sangue anticorpi specifici, progressivamente prodotti dal sistema immunitario in risposta all’infezione stessa. È questo l’obiettivo che ci si è posti – inizialmente – in Cina e in altre parti del mondo, dove alcuni malati sono stati trattati proprio con cellule selezionate dal plasma dei guariti.
Ora anche in Italia si sta portando avanti questa ipotesi, che potrebbe diventare presto una via per le cure, specie per i casi clinici più gravi. Si è capito, intanto, che in alcuni pazienti non basta solo agire con forza per “spegnere” la capacità di replicarsi del virus; occorre anche limitare l’infiammazione che, pur essendo un processo di difesa, può far degenerare le situazioni più critiche.
Ma oltre ai “soldati” reclutati attraverso il sangue dei guariti, tra le armi di difesa potrebbero essere disponibili anche veri e propri “Robocop” sintetici creati in laboratorio; una forma di immunità passiva che prevede la cura attraverso anticorpi monoclonali.
Il farmaco apripista è stato trovato dagli studiosi dell’Università di Utrecht e dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam; e la speranza è che in breve tempo possa essere pronto per la sperimentazione sui malati. L’anticorpo “sbarra” la strada al virus, negandogli così la possibilità di infettare. Agisce quindi impedendo alle “punte” che formano la “corona” di agganciarsi alla cellula, di penetrare al suo interno e di moltiplicarsi.
Va detto che – per ora – siamo solo alle prime fasi di sperimentazione; ciononostante è viva la speranza che tutto questo possa rivelarsi una potente arma contro il virus.
A cura di Federico Mereta, giornalista scientifico